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Lo incontrai nella sua sede dottorale mentre si perdeva gesso in mano tra i suoi calcoli vertiginosi, su di una lavagna forse un tempo nera, ora bigia. L’ufficio non era particolarmente grande e avrebbe potuto apparire persino inadatto ad uno studioso del suo rango; del resto proprio quella lavagna ormai incalcinata dal gesso testimoniava più di ogni altra cosa la claustrofobia che il professor Alan Shepfnick doveva respirare in quel buco di mondo: il perpetuo sbiadire i calcoli svolti senza distruggerli bensì lasciandoli ancora un po’ leggibili, come un palinsesto, per poi scriverci sopra altre equazioni, altre formule. Un modo come un altro per risparmiare spazio e avere tutto sott’occhio, o forse una costrizione imposta dalle dimensioni della lavagna che sfidava così il professore alla sintesi e alla memoria. Qualcuno potrebbe trovare il tutto al limite del ridicolo, svilente, dalla praticità inelastica, controproducente. Eppure, nonostante o forse grazie a quel modo di fare Shepfnick aveva vinto il premio Nobel.

Per dovere di cronaca va dett che l’università di Welming si era offerta più volte, pubblicamente e privatamente, come poi seppi dal rettore Weylood, di sostituire la lavagna dello studio di Shepfnick. La proposta integrale, a dire il vero, prevedeva un cambio tout court dell’ufficio. Non se ne fece nulla perché il professore s’impuntò a tal punto di minacciare il licenziamento; così, dopo l’ennesimo rifiuto, la questione morì.

A resuscitarla, la questione della lavagna, ci pensai io, quando dopo essere entrato nell’ufficio esordii così: «soffocante, no?». Ammetto di essermela cercata, ma tutto sommato Shepfnick non se la prese; se c’era una cosa per cui avrebbe potuto mostrarsi infastidito, era perché l’avevo svegliato dall’ipnotico viaggio nelle terre della matematica; un sogno che per chi veglia può sembrare un incubo, ma che lui mi giurò essere «dolce come un melograno».

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